1
Mi svegliai avvolto da una sensazione di estraneità, un freddo penetrante sulla pelle, un’umidità che permeava l’aria. Passarono lunghi secondi di totale confusione, durante i quali non riuscivo nemmeno a ricordare il mio nome. L’aria fresca dell’aprile mi lambì il viso, profumata dell’erba appena bagnata dalla rugiada notturna. I suoni dei grilli in lontananza si univano al lieve cigolio delle auto parcheggiate e al sussurro del vento tra le fronde degli alberi.
Ero nella macchina di Mario, ne ero sicuro, dal sedile e dall’odore familiare di cuoio e tabacco. Ma Mario non c’era. Un dolore muscolare diffuso, simile a quello che si prova con una brutta influenza, pervadeva ogni mio muscolo, e uno strano languore unito a una fame insopportabile mi assaliva.


Sulla mia pelle sentivo la tipica traccia di bava secca ai lati della bocca post-epilessia, e un altro liquido, vischioso, proveniva dal mio naso.
Con cautela, ne estrassi un filamento denso, macchiato di sangue coagulato, e provai un profondo senso di disgusto.

Con fatica, aprii la portiera, ma le mie gambe cedettero e mi ritrovai in ginocchio sul freddo asfalto. La luce soffusa dei lampioni illuminava una strada stipata di auto. Dietro ogni finestrino, vedevo volti immobili che sembravano avvolti in un sonno profondo.

Cosa era successo?
Le ore sembravano sfumare in giorni. Lo confermò un rapido sguardo al mio orologio: quasi due giorni erano trascorsi. I ricordi del sogno erano vividi, quasi tangibili. Rivivevo ogni sensazione: il tepore del sole sulla mia pelle, la frescura dell’acqua che scorreva sul mio corpo. Ero stato così coinvolto in quella realtà alternativa che la mia mente faticava a distinguere il sogno dalla realtà.

In piedi, barcollante, iniziai a camminare lungo la strada. Ogni tanto vedevo qualche portiera aperta, ma le auto erano vuote. Un crescente senso di inquietudine mi assalì. Dov’erano tutti? Dov’era Mario?
Dietro di me, un sibilo sommesso interruppe il silenzio: era il suono di una portiera che veniva lentamente aperta. Oltre l’oscurità, riuscii a distinguere una figura, un uomo sulla trentina, che emergeva da un’auto solitaria.

Il chiarore lunare disegnava un’ombra lunga e sottile ai suoi piedi mentre si dirigeva verso un campo adiacente alla strada. Sembrava avere una destinazione precisa in mente: un piccolo boschetto, un’isola scura tra la vastità verde del campo.
“Hey!” gridai, cercando di attirare la sua attenzione. Ma lui continuava, inesorabile, come se fosse attratto da una forza invisibile, o come se non avesse sentito la mia voce. Decisi di seguirlo, spinto da una curiosità irrefrenabile.

Il mio cuore pulsava con forza quando lo vidi svanire tra gli alberi. L’oscurità avvolgeva il boschetto come un velo misterioso, rendendo difficile discernere qualcosa. Con un leggero tremito, estrassi il cellulare e ne accesi la torcia, lasciando che un fascio di luce tagliente fendesse le tenebre. Respirando profondamente, l’aria fresca e boscosa riempii i miei polmoni. La curiosità, quell’ardente bisogno di comprendere, spazzò via ogni traccia di paura mentre mi inoltravo tra i rami e le ombre della boscaglia.
2
Il ragazzo che avevo appena visto entrare si era dileguato nel buio. La tenue luce del led del mio cellulare penetrava l’oscurità solo per un metro e mezzo e, girando su me stesso, non riuscivo a scorgere nessun’altra presenza. Ma l’aria era carica di un odore pungente e nauseabondo. La luce del cellulare fece risaltare un pulviscolo danzante in sospensione nell’aria. Mi protessi, avvolgendo la bocca con il collo del mio maglioncino e poi, guidato da un impulso improvviso, decisi di illuminare la zona sopra di me.

Un’immagine da incubo si rivelò. Decine di persone erano sospese sui rami, avvinghiate come in una danza macabra. Molte avevano la bocca serrata sui rami, come se fossero state congelate in un attimo di estasi.



Mentre cercavo di processare la scena, mi spostai, inciampando su un ostacolo: il corpo di una donna, curvato e mummificato, con un fungo che le cresceva dalla nuca. Non un semplice fungo, ma qualcosa di più sinistro.

In preda al panico, fuggii dalla boscaglia, dirigendomi verso la strada. Sull’orlo del bosco, incrociai delle figure barcollanti che sembravano attratte dalla foresta. La luce del mio cellulare illuminò i loro visi vuoti e inespressivi. Sembravano posseduti, guidati da una forza invisibile. Come mai Io non ero in quella condizione? Perché potevo osservarli da fuori?

Era come se anch’io fossi stato avvolto in quella bolla di un altro mondo, di una realtà distorta. Il ricordo era nitido nella mia mente, un’esperienza così vivida che sembrava avessi assaporato ogni istante con ogni fibra del mio essere. Un senso di nostalgia mi pervase, ripensando all’euforia e all’adrenalina di quella fantastica avventura in cui ero stato il protagonista. Probabilmente, molte di quelle persone nel bosco avevano vissuto la stessa illusione, prima di cadere preda di quel sinistro organismo.
Non capivo ancora perché fossi stato risparmiato, perché fossi diverso. Ma in quel preciso istante, il mio corpo chiedeva una sola cosa: mangiare.
Dopo aver cercato nelle auto in sosta, riuscii a trovare solo alcune merendine. Mangiare e bere, anche se poco, mi riconciliò con la mia umanità.
La chiarezza tornò nella mia mente e capii che per sopravvivere dovevo raggiungere un luogo privo di quelle spore mortali. L’unico luogo che mi venne in mente fu la “Camera Bianca” del laboratorio dove lavorava Chiara, un ambiente asettico perfettamente isolato.
Mi tornarono alla mente le storie di Chiara sul suo lavoro con i laser, su quanto fosse fastidioso indossare quella tuta sterile e trascorrere ore in quell’ambiente freddo e privo di contaminazioni. In quel momento, era esattamente ciò di cui avevo bisogno.

Salii rapidamente sull’auto di Mario, sfrecciando via, zigzagando tra le altre vetture abbandonate.”
